Daily Archive 9 Febbraio 2019

Il biologico e il territorio: un legame indissolubile

Coltivare e allevare con passione, orgoglio e rispetto. Rispetto per le persone e per l’ambiente, senza paura di fare fatica. C’è un modo solo per farlo e passa attraverso l’amore per il territorio, alla ricerca di un equilibrio tra i reciproci bisogni, per prendere tutto il buono che la madre terra può darci senza stravolgerla, forzarla e inquinarla: il metodo biologico. Si ottiene così un’economia sostenibile e responsabile, che preserva la biodiversità, la stagionalità e i tempi lenti, che ricorre a nuove tecnologie rispettose del territorio e si attiene a rigorosi disciplinari per valorizzare la qualità e il gusto di quel che viene prodotto.

«Anni fa uno studioso svedese, davanti alla sua colazione, si è chiesto da dove venisse il cibo che stava mangiando e, con una serie di calcoli, ha capito che mediamente aveva percorso tra i 4 e 5 mila chilometri prima di arrivare alla sua tavola», racconta Giovanni Dinelli, Professore Ordinario di Agronomia al Dipartimento di Scienze Agrarie all’Università di Bologna. «Il biologico è diverso, è strettamente legato al territorio, al concetto che il cibo non debba fare migliaia di chilometri prima di essere consumato e che si debbano sviluppare filiere locali.Questo non solo in nome della biodiversità e del rispetto dei luoghi e delle loro tradizioni, ma anche perché nel biologico non si posso usare certe sostanze conservanti, quelle che consentono a un cibo di percorrere migliaia di chilometri, anche se c’è un filone del biologico che pensa che si possa trovare il modo di percorrerli senza ricorrere alla chimica», precisa l’esperto.

Il biologico è anche il terreno su cui viviamo. «C’è un legame indissolubile tra quello che ci fa bene e quello che fa bene anche al Pianeta», spiega il professore. «Quando seguo una dieta ricca in vegetali e povera in carne gli studi clinici dicono che sto meglio perché non introduco nell’organismo ossidanti, che causano infiammazione. Contemporaneamente, però, l’effetto positivo della mia scelta si ripercuote anche a livello planetario perché per fare un chilo di carne vengono impiegati gli stessi alimenti che potrebbero sfamare circa 15 persone. Senza considerare il sistema produttivo, altamente impattante sull’ambiente…», sottolinea.
E ricorda che in agricoltura biologica è vietata la monosuccessione: questo porta a dover necessariamente coltivare alimenti diversi e a fare rotazioni seguendo la stagionalità, introducendo una salutare diversità sia nella produzione, sia nel consumo.
Nel momento in cui si sceglie biologico, quindi, si sceglie un alimento che non contiene pesticidi, additivi chimici, non geneticamente modificato, si fa del bene a se stessi e all’ambiente perché quel che ho consumato non ha impattato su di esso.

Coltivare salute, quindi, sia direttamente, che indirettamente. «Dovremmo essere tutti disposti a entrare in un circolo virtuoso: l’agricoltore produce un pochino meno, non inquina l’ambiente e garantisce un prodotto sano, senza interferenti endocrini e sostanze tossiche. Il consumatore è disposto a pagare un pochino di più e ha un doppio vantaggio: mangia cibo buono e pulito e contribuisce a non avvelenare il territorio», sintetizza Giovanni Dinelli. La conversione al biologico richiede due anni, un periodo duro per l’agricoltore che già produce biologico, ma ancora deve vendere come convenzionale. E il rischio della contaminazione c’è sempre. Il residuo zero è molto difficile da ottenere, quasi impossibile, ma un alimento bio ha mediamente una contaminazione da dieci a cento volte inferiore rispetto a quello convenzionale: è una differenza enorme, che non si può trascurare. Poi spetta a noi scegliere. «È una questione di consapevolezza: abbiamo prodotto alimenti a basso costo, ma abbiamo le acque contaminate e l’inquinamento è oramai diffuso sul territorio. Dobbiamo capire cosa ci sembra importante, ricordando che noi siamo quello che mangiamo e che il nostro stato di salute è strettamente dipendente da questo».

Fonte: iodonna.it

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La fattoria robot che produce lattuga.

Ha aperto negli Stati Uniti la prima fattoria robotizzata, creata dalla società Iron Ox. Sfruttano la coltura idroponica e la robotizzazione per produrre in 800 metri quadri (al coperto) circa 26.000 pezzi di verdure a foglia verde l’anno. È un modo insolito per presentare questi dati perché in genere si parla di peso, ma si può dire che per produrre la stessa quantità una coltura tradizionale richiederebbe molto più spazio; un vantaggio dovuto più al sistema idroponico che all’uso di robot ma comunque rilevante.

La società ha aperto la propria sede nei dintorni di San Francisco (in California, dove sennò?), e oltre agli 800 metri della coltivazione c’è un altro po’ di spazio dove lavora il personale umano – che si occupa dello sviluppo tecnologico, degli aspetti commerciali e dell’amministrazione. La società ha già avviato la produzione ma non ancora le vendite; ci sono trattative in corso con ristoranti e negozi locali, e nel frattempo i prodotti finiscono alla mensa interna e regalati in beneficenza.

Prima che il business decolli potrebbe volerci del tempo considerata l’enormità dell’investimento. La serra idroponica consente infatti di aumentare la produzione ma è comunque più costosa rispetto ai sistemi tradizionali. Inoltre ci sono robot di ultima generazione, di certo non economici. Insomma, servono davvero tanti soldi per avviare tutto questo.

Per esempio, Iron Ox ha dovuto sviluppare un software che chiamano The Brain, e che serve a coordinare i robot stessi, controllandone la posizione e i movimenti, a monitorare i livelli di azoto e la temperatura, a gestire in modo quasi automatico tutto il processo produttivo. Quasi, perché per alcune cose l’intervento di persone in carne e ossa è ancora necessario –  ma l’obiettivo è di arrivare all’automazione totale entro breve termine. I robot per ora possono raccogliere i prodotti quando sono pronti, spostarli da un “vaso” all’altro quando è il momento, o anche trasportare intere strutture da quasi 400 chili. Il tutto senza danneggiare le delicatissime foglie.

Già ma perché affrontare uno sforzo simile per produrre lattughe e spinaci che giocoforza costeranno più delle altre? Le possibili ragioni sono diverse: tanto per cominciare nell’area in questione c’è carenza di manodopera agricola, e l’uso dei robot potrebbe essere l’unica soluzione per farvi fronte. “Se non troviamo un altro modo di portare persone negli USA per lavorare, l’automazione è l’unico modo di sopravvivere”, afferma infatti Yiannis Ampatzidis (Docente presso l’Università della Florida, Ingegneria agricola e biologica).

C’è poi il fatto che questo tipo di coltivazione si può realizzare molto vicino o anche dentro alle città: così facendo si realizza il sogno del “chilometro zero”, riducendo i costi di trasporto sia economici che ambientali. E diventa possibile portare nei negozi prodotti più freschi e di maggiore qualità.  Inoltre sul lungo periodo i costi dovrebbero ridursi e diventare competitivi con le culture tradizionali.

E c’è anche la questione del consumo di suolo, a cui si può e si deve dare una risposta complessa e articolata di cui fa parte anche la coltura idroponica. Tra gli obiettivi c’è anche una maggiore integrazione tra città e natura, con ambienti urbani meno cementificati e più ricchi sia di giardini decorativi sia di luoghi per la produzione alimentare – ne sia esempio il bosco verticale di Milano.

Fonte: ilfattoquotidiano.it

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